IO TECNICO: Ultratesto sincrono
La scena peggiore è quella che si ripete ogni sera.
Non quella del sangue e della caduta, ma quella in cui MagicFriend™ apre la porta—
per ricordarsi troppo tardi di non avere più equilibrio.
Cade. Asfalto nero, freddo.
Gengive piantate nel cemento.
Si ritrova tutta la faccia tumefatta —sanguinante— steso sotto gli sguardi dei passanti.
“Che cazzo volete?!”. Pensa di averlo sussurrato. Invece lo sentono tutti.
Il suo corpo non lo vede più da alcuni mesi, ora è esposto in una teca, Ala Ovest Sala 12C: Corpo Intero Maschile (Uomo #9281).
La gente paga e paga bene per vederlo nudo, “Signori e signore guardate com’eravamo fatti una volta!”.
La gente guarda, sorride, applaude. Il corpo inerte mica capisce.
Con i proventi della vendita al museo si è comprato una nuovissima sfera pulitrice automatica e una solitudine perfettamente sterilizzata.
Il punto non è il lavaggio perfetto che quell'arnese offre. È l’oblio profondo che se ne va con la sporcizia, quello è il punto.
E lui lì, steso, pensa agli altri come lui. A quelli che vanno a guardarlo dopo aver venduto anche loro
carne,
muscoli,
intestini,
per comprarsi sfere pulitrici automatiche.
Resta lì a terra, incapace di alzarsi, ancora estraneo al suo nuovo corpo sintetico; la sigaretta gli pende dalla bocca come un dente scheggiato, spaccata dall’asfalto.
Il suo corpo originale a volte gli manca, ma quello sbornie così non le reggeva.
E l’altro? Sono io, nello stesso istante, molti chilometri distante. Cammino per le viottole dietro il centro città, l’odore della notte mi graffia le punta delle dita. “Che città arrogante”, penso.
Davanti vedo cartelli psicopubblicitari e autobestie sgargianti. Da uno dei cartelloni, quello delle batterie Kiloman ™ che recita "Kiloman ™: ha un potere incredibile!" vedo uscire un uomo.
SCLUNC
raff
SCCCCCCCCCCCCROffffff
La pubblicità si squarcia e ne esce un uomo nudo, barbuto, possente. Si avvicina, mi stringe la mano. È Kiloman™ in persona.
“Sono nato anche io così”, dico. Non mi risponde, non mi chiede come.
Raccoglie un sasso e lo fa rimbalzare sul palmo. Palmo di carne. D’ossa.
Mi fissa ancora per un attimo, silenzioso. Forse è nato prematuro e non ha acquisito ancora capacità di parola, a volte succede.
Oppure è solo il mio viso imbronciato, la mia tuta da smontatore, a chiudere la conversazione prima ancora che cominci.
CLANC CLANC CLANC faccio per le viottole e cerco il numero sedici di Via della Velocità Rampante.
In quello stabile la parola si ripete identica a sé stessa, e nessuno riesce più a dire nulla che non sia già stato detto.
Per questo hanno chiamato me, per risolvere il problema alla fonte.
È un lavoro duro, di manutenzione, ma qualcuno lo deve pur fare.
Arrivo al numero civico, è una vecchia fabbrica di cuscini. Una fabbrica come tante dove vive gente.
Quelli che cerco io stanno nel reparto inscatolamenti, inscatolati pure loro.
Nell’androne la scala è deserta a parte una vecchia che piange al primo piano, ma quella non conta. È deserta.
STACCO. [Inquadratura stretta sul volto].
L’IO TECNICO entra in campo, innesca la voce.
Io: (con voce d’ufficio) Sono qui per la disattivazione.
[Controcampo, l’altro sembra confuso. Risate fuori campo]
Nessuna risposta, ovviamente. Altrimenti non sarei qui, a quest’ora.
L’uomo si allontana dalla porta e io lo prendo come un invito ad entrare.
La casa-fabbrica è spoglia a parte per gingilli e gadget vari alle pareti, da mostrare agli ospiti.
Nel soggiorno-repartoinscatolamenti due donne identiche sfregano nocche contro nocche, con gli occhi che si cercano in fondo ai circuiti in tilt.
Un pattern già visto in casi di avaria della parola.
Gli esseri verbalmente spenti spesso muovono le mani e frizionano le dita e strofinano le nocche e le fanno suonare come calotte craniche a una cerimonia ancestrale.
Così comunicano, in assenza della parola.
Sono casi come questo che mi fanno rimpiangere di aver venduto le mie mani originali. Queste sintetiche sono meglio, per carità.
Ma i suoni che producono non verrebbero capiti se, casomai, mi andassero in avaria le parole.
Mentre attraverso la stanza come se fossi una melma inorganica una delle due altre melme va in cucina.
Sul tavolo, un cartone sfatto trabocca di decine e centinaia di volti sorridenti, denti bianchissimi, bicipiti in offerta, identità impresse su poster pubblicitari, promesse che la tua vita migliorerà se solo saprai portare a termine il progetto che tieni chiuso ermeticamente nel cassetto; tutti arrotolati come interiora d’inchiostro.
L’altra donna si è alzata e sta ravanando dentro con urgenza. Cerca un ricordo, un odore.
Trovato, lo sniffa. L’odore le spalanca una sinapsi rattrappita dal tempo.
Dal marchio pubblicizzato posso dedurre si chiami Imparaoggi™. “Il corso più veloce che ci sia”, se ricordo bene lo slogan.
In questa stanza il ronzio del silenzio è come il rame, è come una voce di sirena della polizia.
ching!
L’altra Imparaoggi™ torna dalla cucina e mi parcheggia un bicchiere sul tavolo con la grazia di una pressa idraulica.
L’acqua sa di zolfo, di plastica esausta. Perfetto, come piace a me.
La bevo e la poso fissando il bicchiere. Lo guardo e penso che se potesse mi chiederebbe scusa, il bicchiere. Non ha fatto nulla, ma potrebbe.
Potrebbe perché in casi come questi di sintassicidio verboanomico, non è raro scoprire il domicilio stesso come causante del disagio.
La rivolta residenziale, intesa come la residenza che si rivolta contro gli occupanti, è un fenomeno già conosciuto e su cui si sono fatti diversi studi.
Tuttavia, è ancora poco compreso. Pare che la residenza si risenta, si ribelli, si risieda da sola.
E mica succede sempre, ma capita.
Magari un giorno sei a casa tutto tranquillo, magari sei tornato da una maratona e stai bevendo un bicchiere d’acqua, magari un bicchier d’acqua che sa di zolfo come questo e SPACIUNF— la porta si chiude, le finestre pure.
Non sto dicendo che abbiano coscienza. Solo che ogni tanto decidono di chiuderti dentro.
Quando è una fabbrica grande — come questa — non è solo una rivolta. È una rivolta di fabbrica, ed è più pericolosa.
Un tale perse l’uso di entrambi gli occhi per una rivolta di fabbrica, andò in ipervista. Vedeva tutto: oltre i muri, i pensieri, le scogliere di Dover. Anche oltre l’universo conosciuto. Fino a Dio.
Mi toccò spegnerglieli per sempre, non reggeva più la pressione della onniscenza.
Distolgo lo sguardo e scaccio il pensiero, non è affar mio.
Sono indeciso se sciogliermi sul pavimento per la stanchezza o alzarmi in piedi e strillare dando di matto.
Mi alzo in silenzio, e vado verso le Imparaoggi™, mentre torna l’uomo e si siede per terra accanto a noi.
Li metto a posto, ora li ho resettati. Anche se non è il protocollo, li setto su soli verbi all’infinito, perché non cadano più in errore.
Chiudere, chiamare, calibrare. Chiedere, configurare, compilare. Chiavare! Chiavare, chiavare. chiava—.
È anche più comodo per loro, alla lunga coniugare stanca.
L’alba lampeggia a intermittenza. Ho solo un ultimo caso per stanotte. Arrivo nel bar dismesso che ha reso casa sua.
Questo MagicFriend™ ha riportato dei danni non indifferenti cadendo. Ce l’ho davanti, ha la faccia leggermente squarciata. Non tanto da urlare, ma abbastanza per non stonare in un mattatoio. Enormemente saturata da un filo che si mischia con la carne, la rende meccanica. È distrutta, ma con ordine.
Non capisco come possa essere successo, da una semplice caduta. D’altronde, non sono un chirurgo e non amo fare commenti se non conosco il campo.
Quindi sto zitto e ripristino il modulo locomotore.
PING
PING
PIN // // //G
Sembra che il suo cervello rigetti questo corpo meccanico, lo schifi. Di solito bastano sette, otto giorni per adattarsi a non essere più quello che eri quando sei uscito dalla pubblicità per la prima volta.
Poi passa. Di solito.
L’occhio mi cade ancora lì, dove non dovrebbe, su quel profondo squarcio. Vedo due lembi cuciti come stoffa, a tenere insieme una coppia che non si ama più. Per un momento penso di volerne uno uguale. Per distinguermi dagli altri.
Ma poi ci ripenso: sarei comunque un’imitazione di questo MagicFriend™.
Peggio, sarei l'imitazione della pubblicità da cui è nato.
Finito, riparato. uff.
Si alza, per dimostrarmi che può camminare. Accelera. “Vacci piano”, gli dico. Si siede sul divano, di fronte alla Teleoggetti.
Non sopporto quell’arnese. Trasmette telepromozioni ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette: orologi post-intelligenti, ceste da pic-nic pre-antidiluviani, set di posate per divorare il tempo. Basta dire “Che bello, lo voglio” — anche per sbaglio — e il Teleoggetti te lo rigurgita addosso, nel mondo reale.
Nel mio mestiere impari a odiarlo, quel cassone. È diabolico.
Basta un “bello quell’armadio” e sei fregato. Addio sterno. Addio funzioni primarie.
Se poi succede con le reclame di viaggi aerei… reset completo.
SYS.RESET[Total] > ok
MEM.EVT::irreperibile
SPEECH_MODULE = fallback::muto
BODY=mod.2/neo-flesh
ANIMA=non di serie
Ma sono troppo stanco per pensare, mi siedo accanto a MagicFriend™. Lui mi offre una birramoltoalcolica, io lo ringrazio. Beviamo alla sua salute, alla mia disidratazione, al presente che ci ha giustamente lasciato indietro.
CLING-CLING
Mi racconta del suo corpo, di dove è esposto. Io gli racconto di dov’è esposto il mio, a pezzetti.
Si fa giorno, il primo oggetto che vediamo della nuova giornata è il sole. Per fortuna nessuno dice niente.
Oggi è il mio giorno libero, allora faccio una stupidaggine: vado a vedere il mio corpo maciullato. Visito anche quello di MagicFriend™. Il suo racconto mi ha lasciato incuriosito perchè il suo è intero, vale molto di più. È piuttosto grazioso sotto quei fari potentissimi che lo fanno apparire chiaro come la punta dell’Himalaya. Le dita sono come petardi rosa, gli occhi penetrano l'infinito. Puzza di vecchio. Non solo grazioso, proprio bellino.
Lo compro all’asta.
Mi costa tutti i risparmi
di una vita.